Nella “bianca valle” dell’eternità

A Valea Albă, villaggio natale del grande scrittore rumeno Constantin Virgil Gheorghiu, autore di un sorprendente romanzo sul sacerdozio e sul suo mistero
Valea Alba

Siamo in Romania, nella regione storica della Moldavia. Più precisamente ci troviamo a Războieni, comune di circa tremila abitanti, ubicato nel distretto di Neamt: una regione ricca di boschi, di catene montuose (il 33 per cento del territorio romeno è costituito da montagne), di antichi monasteri dai meravigliosi affreschi.

Războieni è formato dall'unione di cinque villaggi, di cui ci interessa uno in particolare: Valea Albă, famoso per la sanguinosa battaglia che qui nei pressi vide affrontarsi, il 26 luglio 1476, con feroci combattimenti corpo a corpo, due armate: quella del voivoida (principe) di Moldavia Stefano III il Grande e il sultano Maometto II venuto a vendicare la cocente sconfitta di un anno prima. Lo scontro si concluse con la ritirata strategica dell’armata moldava e una virtuale vittoria turca. Pare che il nome di Valea Albă (Valle bianca) sia dovuto proprio al biancheggiare delle ossa delle migliaia di cadaveri insepolti.

Ma non di questo remoto episodio di guerra mi accingo a parlare. Valea Albă mi interessa perché in questo villaggio è nato nel 1916 uno dei massimi scrittori rumeni. Constantin Virgil Gheorghiu, Dopo gli studi in un liceo militare, frequenta lettere e Filosofia a Bucarest. Cronista per vari giornali, durante l’ultima guerra firma diversi eccellenti reportage dal fronte, che egli pubblica a partire dal 1941: primo di tutti, uno sconvolgente resoconto sul genocidio, da parte del potere sovietico, delle popolazioni rumene stanziate in Bessarabia. Queste opere, pur segnando un momento importante nella letteratura romena di guerra, verranno rimpiazzate dai surrogati della letteratura del “realismo socialista”.

È invece del 1937 la sua prima raccolta di versi. Dopo la guerra, inviso al regime filosovietico, Gheorghiu si rifugia a Parigi assieme alla moglie Ecaterina. Lì continua la sua attività di scrittore: romanzi, ma anche scritti religiosi, reportage e note di viaggio. Ordinato sacerdote nel 1963, dopo un travagliatissimo iter, dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli viene nominato economo stauroforo (colui che porta la croce nelle processioni) della Chiesa rumena a Parigi. Ormai è uno tra gli scrittori di maggior successo dell’esilio rumeno, autore di più di quaranta volumi.

Suo capolavoro è ritenuto il romanzo La venticinquesima ora, del 1949, da cui è stata tratta nel 1962 una famosa versione cinematografica con Anthony Quinn nel ruolo del protagonista: dramma di un rumeno che consuma tredici anni della sua vita lontano da casa e dalla famiglia attraverso lager e prigioni d’ogni tipo. Vi predomina tuttavia una superiore comprensione, calda e umana, dei propri simili e del mondo circostante, scevra da egoismo, passione e odio.

La “venticinquesima ora”, ovvero un tempo che non esiste, un tempo al di là del tempo, che esprime l’anelito dell’uomo, prigioniero delle sue ventiquattro ore, ad entrare fin da adesso in una dimensione “altra”, ritorna in un’opera autobiografica in cui lo scrittore rivive la sua infanzia meravigliosa con un padre speciale, umile prete della Chiesa ortodossa, di cui racconta la dedizione eroica alla sua missione.

Con Dalla venticinquesima ora all’eternità, edito da San Paolo, Gheorghiu ci trasporta nella sua Romania verso la fine della Seconda guerra mondiale, mentre l’invasione sovietica è alle porte. Il padre dello scrittore, parroco in una sperduta parrocchia di campagna, è accusato di eresia e sospeso dal suo ministero. Privato del già gramo stipendio statale, vedrà minacciata la sopravvivenza stessa dei suoi. Chiede allora aiuto al figlio, giornalista nella capitale, ma al ritorno rischia di essere fucilato per un equivoco di cui è causa involontaria il giovane Gheorghiu. Pur scampato alla morte, non si saprà più nulla né di lui né dei suoi parrocchiani, nonostante le molteplici affannose ricerche del figlio.

In realtà, questo scarno resoconto non rende affatto giustizia all’originalità di una vicenda toccante e umanissima, che vive tutta di una dimensione poetica e spirituale. Fin dalle righe iniziali il lettore si imbatte in una immagine insolita: il primo ricordo dell’autore, ancora nella culla, è il volto del padre chino su di lui.

Due misteri che si scrutano e si interrogano silenziosamente. Per molte pagine non c’è traccia di una madre, come in certe parabole del Vangelo dove a dominare la scena è unicamente un padre nel suo rapporto con i figli. Il padre, dunque, quasi icona che rinvia a Dio, alle realtà oltremondane. E ancora come una icona egli apparirà per l’ultima volta allo scrittore, il volto inquadrato nel finestrino del treno diretto verso l’ignoto.

Fra questi due momenti si colloca la storia di un povero prete di montagna, che su quelle lande pietrose si prodiga per la sua gente tra sofferenze indicibili, sempre più affaticato e diafano, quasi non più di questa terra. Storia che è al tempo stesso quadro di una infanzia – quella del figlio – trascorsa, da una parte nella miseria più nera, ma dall’altra nell’abbondanza dei doni spirituali e quasi in un anticipo di Cielo, grazie al rapporto speciale col padre tanto amato. Un rapporto divenuto più intenso e puro dopo la prova: è quando il bambino Virgil si sente “tradito” da colui il cui amore s’accorge non essere esclusivo nei suoi riguardi, ma che – in Cristo – allarga la sua paternità a tutta l’umanità: presente, passata e futura.

Sorprendente è il finale di questo romanzo sul sacerdozio e sul suo mistero, in cui è tutta la storia religiosa di un popolo che si affaccia al lettore. Gheorghiu, infatti, immagina il padre e i suoi parrocchiani “assunti” in Cielo, apertosi misericordioso ad accoglierli: non viene in mente l’ultima scena del film di De Sica Miracolo a Milano, dove i poveracci della baraccopoli, rifiutati e perseguitati, si salvano emigrando in massa, a cavallo di scope, verso un mondo più bello e più vero?

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